La prima visita è sempre un momento delicato.
Lo è per la persona che la affronta perché, se anche all’apparenza sembrerebbe un punto di partenza, quell’istante è già stato preceduto da un cammino fatto di molteplici fasi: la percezione di un disagio, i tentativi di farne fronte, l’accettazione della problematica e la scelta di chiedere una consulenza mirata.
Sedersi in quella stanza è quindi l’apice delle aspettative e uno snodo importante per tracciare i passi successivi.
Al contempo, per il professionista rappresenta forse l’evento chiave di tutto il percorso.
È un incontro impari, nel quale l’asimmetria dei ruoli può avere un impatto rassicurante o respingente.
È un primo passo che prevede di scoprire tutte le carte.
Al termine dell’incontro il nostro interlocutore avrà delineato un’immagine di noi veicolata dalle sue impressioni iniziali: l’impatto visivo della nostra persona e dell’ambiente, la reazione emotiva che il nostro atteggiamento susciterà in lui, la stima del livello di preparazione, evocata da parole e gesti che compiamo.
Lo specialista deve essere ben consapevole dell’esame minuzioso al quale è sottoposto, mantenendosi il più possibile naturale ed evitando di farsene troppo influenzare.
Il primo incontro ha grande potere sulla determinazione dei successivi, se ci saranno e con quale spirito verranno affrontati.
Certo, è sempre possibile corregge il tiro, ma molto più proficuo partire subito con il passo giusto.
L’esperienza mi ha insegnato che pochi e semplici elementi possono facilitare l’instaurarsi di una relazione terapeutica positiva: la gentilezza, accompagnata dal sorriso, la predisposizione all’ascolto, la pazienza e la chiarezza.
Ci sarà tempo per riempire ogni casellina dell’anamnesi e per svolgere tutte le prove diagnostiche necessarie. Avremo altre occasioni per specificare quel dettaglio.
Sarà prezioso invece accogliere e raccogliere il racconto della persona, ricordandosi di non sostituirla mai alla sua diagnosi. Certo, i sintomi sono importanti, ma sono i vissuti, le difficoltà pratiche e quotidiane che fanno il peso del disturbo, e che costituiscono i fattori che attenuandosi danno misura concreta del processo di guarigione.
Saper porsi in ascolto, utilizzando domande mirate per non perdere il focus dell’incontro, lasciare il giusto tempo per esprimersi, riformulare quanto ci viene raccontato senza aggiunte o interpretazioni personali, rispondere in modo chiaro e puntuale ai quesiti posti, dichiarando apertamente le eventuali lacune quando non siamo in grado di rispondere. E infine esporre in modo semplice e onesto quanto possiamo fare per quella situazione e in quali modalità.
Tutto ciò contribuisce a favorire una collaborazione attiva, una sana motivazione al trattamento, e un approccio sereno all’incontro con l’altro da parte di noi professionisti della cura.
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