La lezione della serenità

Winnicott poema

Un libro è un pò come un incontro.

Pensa a tutte le persone che sfiori ogni giorno: a volte conoscenti, a volte sconosciuti; istanti brevi e senza traccia oppure scie che resistono nel tempo.

Allo stesso modo, una lettura può toccarti senza lasciare segni o piantarsi tra mente e cuore come una scheggia. E questo può verificarsi anche con lo stesso manoscritto in momenti diversi della vita. 

Perchè il punto chiave è proprio dove ti trovi tu in quell’esatto istante. 

 

Anni fa vivevo una vita totalmente diversa, con un lavoro, degli interessi e uno status sociale differenti. Non avevo ancora vissuto determinate esperienze nè maturato alcune conoscenze. Non ricordo assolutamente i pensieri che questo libro mi aveva scatenato, ma all’epoca non avevo ritenuto necessario lasciare alcuna traccia né sottolineare passaggi.

La mia lettura dei giorni scorsi ha invece impresso segnali evidenti sulla carta. I capitoli hanno mosso qualcosa in me e le riflessioni insorte mi ronzano ancora in testa. 

 

Mark Epstein è un noto psichiatra americano, che come altri nel suo settore ha trovato connessioni tra la psicoterapia e il Buddhismo, arrivando a contaminare il suo approccio professionale con conoscenze attinte da entrambe le aree e scrivendo diversi manuali sul tema. 

Non è una lettura da tutti, richiede un minimo di interesse e conoscenza in questi settori.

 

Il primo impatto è stato quasi “disturbante”. Fin da subito Epstein chiarisce un aspetto fondante della filosofia del Buddha: la vita è un percorso costellato di traumi inevitabili. Puoi agire nel migliore dei modi o essere una persona estremamente malvagia, la vita comunque non avrà pietà. Saranno eventi di portata più o meno grande ma ricadranno su tutti, nessuno escluso. 

 

Per me che ho sempre amato l’idea del “raccogli ciò che semini” e se ti impegni su una certa strada con costanza e fiducia le cose andranno per il verso giusto, un concetto del genere non è semplice da digerire. 

Addentrandomi nella lettura però ho trovato conciliazione: il Buddhismo non vuole spingerci alla rassegnazione e allo scoraggiamento, ma esortarci a coltivare uno spazio interiore di equilibrio e consapevolezza, un sostegno per i momenti duri che inevitabilmente arriveranno. I suoi insegnamenti ci esortano a evitare l’eccessivo attaccamento alle sensazioni positive evitando al contempo di fuggire dal negativo. Il dolore, infatti, va affrontato a muso duro perchè solo passandoci attraverso possiamo veramente superarlo e andare oltre. 

 

E’ un inno alla vita vissuta pienamente e non ha una pseudo – vita in cui sopravviviamo, ignorando traumi celati come polvere sotto un tappeto, appena sotto la superficie della nostra consapevolezza. In questi casi ci sembra di aver trovato un equilibrio, ma il prezzo che paghiamo può comportare l’incapacità di lasciarci veramente andare, la preclusione di alcuni aspetti della nostra personalità, la paura e la chiusura verso le relazioni. 

 

Il secondo aspetto che ha molto risuonato in me, riguarda i riferimenti allo storico pediatra Donald Winnicott, che in molti conosceranno per le sue teorie sull’attaccamento tra genitore primario e figlio e il concetto della madre “sufficientemente buona” che ci salva dall’idea di perfezionismo materno che piace tanto alla nostra società. 

 

La nascita del mio primo figlio è stata uno dei momenti chiave della mia vita, ma non posso negare che abbia anche provocato una condizione di trauma per lunghi mesi dopo l’evento. 

Non ero assolutamente preparata a passare dal periodo idilliaco della gravidanza, perfetta sotto ogni punto di vista, alle difficoltà reali e quotidiane dell’essere mamma. Cresciuta a pane e Mulino Bianco, ero convinta di essere dotata di capacità innate di accudimento. Mi vedevo sempre con il sorriso, impegnata in compiti di cura, in stato costante di sintonizzazione ed empatia verso il pargolo. Certo, ho provato amore, tenerezza e senso di protezione ma non mi sarei mai aspettata il nervosismo, gli scatti di rabbia, il senso di soffocamento e di perdita della libertà personale. Neanche mi immaginavo che avrei sentito come schiacciante il peso della pressione sociale, che dà per scontata la tua rinuncia alla vita precedente e l’incondizionata e totale adesione al ruolo di madre. Senza scampo, senza altri interessi che non riguardino il bambino. E sempre e comunque in grado di cavarsela da sola. 

 

Ho sofferto molto e soprattutto in silenzio. Mi sono vergognata tantissimo di non essere all’altezza e, ancora di più, di essere proprio negata per quel ruolo. Ho vissuto fortemente il senso di solitudine nell’avere intorno solo mamme adeguate e di non potermi confidare con qualcuna nel mio stato, perchè gli altri neonati mi apparivano sempre tranquilli, facilmente gestibili e con mamme innamoratissime e ben calzate nel ruolo. 

Ad un certo punto ho capito che la situazione andava affrontata e la strada giusta non poteva solo essere quella di farmene continuamente una colpa e chiedermi che cosa ci fosse di sbagliato in me. Epstein avrebbe detto che avevo cominciato ad affrontare i vissuti negativi, invece di respingerli in un angolo buio. 

Ho iniziato a informarmi, a leggere e ascoltare scoprendo di non essere unica al mondo. Ho chiesto aiuto e tirato fuori tutte la difficoltà con chi mi stava attorno; mi sono sfogata con chiunque disposto ad ascoltarmi, fino allo sfinimento. Sono ricorsa all’aiuto professionale e sono riuscita a ridimensionare molto il mio vissuto, che l’occhio dell’esperto mi ha mostrato essere molto meno enfatizzato e grave di come appariva alla mia coscienza. 

Pian piano ho imparato ad amarmi un pò di più e quindi a poter avere le risorse per amare nel modo giusto. Mi sono concessa di riprendermi i miei spazi di donna e di vivere sempre meno il senso di colpa costante di chi è coinvolto in un rapporto di cura ma cerca anche di preservare integralmente la propria personalità

 

E’ stato un cammino lungo, un crescendo fatto di ricadute affrontate con uno spirito sempre più flessibile e maggiore prontezza nel rimettermi in piedi. Mi sono liberata dalle catene dell’auto – condanna e dalla paura del giudizio altrui. 

 

Questo libro è stato un pò come un coronamento: la ri – lettura mi ha permesso di guardare al percorso fatto fino ad ora e di ritrovarci la via indicata dal Buddha: accettare che i traumi esistono, smettere di nascondersi e affrontare la sofferenza passandoci attraverso. 

 

Per poter crescere un figlio sereno, devi innanzitutto permetterti di essere una persona felice. 


Categorie: Benessere, Yoga

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